SITO AGGIORNATO IN DATA 19 FEBBRAIO 2025
Il documento, certamente già noto ai cultori di storia locale, fotografa la nostra cittadina dal punto di vista sociale ed economico: una vera e propria radiografia della Mola appena uscita dal periodo feudale della famiglia Vaaz. Il prof. Vito Didonna ha curato la pubblicazione riportando integralmente il testo del manoscritto, apportando soltanto una trascrizione filologica. Per comodità di pubblicazione abbiamo diviso il documento in più parti. In questa prima parte coloro che stilano il rapporto, e che si firmano in calce, descrivono il nostro paese con dovizia di particolari in modo che il destinatario lettore, il Supremo Consiglio delle Finanze, possa facilmente avere chiara in mente l’immagine del nostro paese.
1783: Piano della situazione, estensione e qualità del tenitorio di Mola, con una brieve narrazione dell’agricoltura e de’ mezzi da migliorarla da rimettersi nel Supremo Consiglio delle Finanze, in esecuzione de’ suoi ordini dal Governatore, Amministratori e Deputati della predetta Città.
“Praesentia domini provectus est agri”. Palladio: libro I- Tit: VI
L’ordine fatto pervenire di Real Comenda alle Università del Regno per l’organo del Supremo Consiglio delle Finanze che ciascuna Università riferisse la estensione, qualità e cultura dei rispettivi territori, ha colmato di gioia gli animi dei fedeli vassalli, e loro ha ispirata certa fiducia di credere, che sotto il governo della benefica Maestà del nostro provvido Sovrano siano arrivati li giorni felici di questa più bella e preziosa parte dell’Europa, non essendovi segno più certo della prosperità di uno Stato, quanto quello di mirare il Sovrano aver cura dell’Agricoltura e degnarsi dall’alto suo trono volgere lo sguardo sulla coltivazione dei terreni. Noi perciò destinati dal prelodato Supremo Consiglio ed eletti a questo in Pubblico Parlamento del Comune, col maggior rispetto e con quell’ordine che per noi potremo, anderemo procurando di ubbidire, e sodisfare quanto da noi si deve.
Mola è posta sulle spiagge del Mare Adriatico: il suo territorio si estende lungo la marina da scirocco a maestrale: dalla parte di scirocco la sua distanza da Mola si estende miglia tre: dalla parte di maestrale similmente miglia tre: da mare a monte è varia la estensione perché è compreso il territorio dalla parte di terra da un quasi semicircolo: compensata però è miglia tre e mezzo: da mare verso monte si sale sempre per un piani dolce inclinato, ed alla distanza di circa due miglia si trova una catena di colline chiamata volgarmente la Serra sulla quale poicchè si sale si trova un’altra pianura.
Il territorio di Mola ha una particolare e regolare divisione: è partito in varie contrade: si dicono contrade un comprensorio di poderi posseduti da varie persone, è situato tra due vie, le quali hanno la qualità di vie pubbliche e sono denominate Capodieci, Reali o Capodieci di contrade.
Questi Capodieci sono quasi tutti equidistanti l’uno dall’altro: hanno tutti il loro principio dalla marina e propriamente dal sito per dove passava anticamente la via Appia, ossia la via Traiana. Lungh’essi vi si trovano cisterne di acqua piovana per uso degli animali e a persone scavate nel sasso e fatte profonde perché l’acqua la prendono dai suddetti capodieci e dalla piana terra.
Tutti nella loro antica situazione per le fondamenta che si osservano, erano incassati da pareti dall’un lato all’altro. Queste pareti come si osserva dalle dette fondamenta, erano formate di pietre vive a crudo, ossiano composte senza calce, come presentemente buona parte lo sono dall’altezza di circa cinque palmi. Di siffatte pietre vive di varia grossezza e lunghezza, cioè di palmi uno, due più picciole e più grandi staccate l’una dall’altra se ne trova gran quantità sparse sul suolo e mescolate nel terreno. Di detto capodieci uno ve ne ha che si chiama via Tarantina e tutti, come si è detto, hanno il loro principio dal mare, e vanno verso terra.
Alla distanza di miglia uno e mezzo da Mola verso terra sono questi capodieci intersecati da una via traversa, la quale camina da scirocco a maestrale e viene denominata la Via di Mezzo, oltre la quale passano li suddetti capodieci e si dilungano verso monte sino ad un’altra via traversa che si trova miglia quattro distante da Mola passata la serra nel luogo del Cordone chiamato così o perché nella peste dell’anno 1691 fu posto come si pose il picciolo cordone che divideva un paese dall’altro, o perché cordone si chiamasse anche prima prendendosi nel significato di estremità, volendo denotare il confine del territorio.
Questa partizione in varie contrade col mezzo dei descritti capodieci, colle cisterne lungh’essi è molto comoda per abbeverare gli animali, e per le passate dei diversi possessori nella istessa e nelle differenti contrade, e la uniformità e l’ordine mostrano essere stata disegnata non dal caso e dal solo consenso dei possessori in vari tempi, ma formata nella sua origine tutta intiera coll’autorità pubblica.
Nell’ordine e nel disegno di tale partizione gli eruditi ravvisano tutta la simiglianza colla maniera tenuta dagli Ateniesi nell’ordinare le strade delle loro città, e da ciò argomentano che Mola anticamente sia stata colonia dedotta ed abbitata dagli Ateniesi, e contestano questa loro opinione collo stemma antico di Mola ch’era una Civetta: aggiungono ancora che la denominazione di Via Tarantina deve avere un principio rimotissimo ed eguale a tempi, ne quali fioriva la Repubblica Tarantina, e forsi dominava in queste regioni, perché essendo la città di Taranto molto distante da Mola, e frapponendosi tra esse altre città senza un gran rapporto tra loro o senza la qualità di capitale, non si potrebbe capire come da detta Città di Taranto avesse potuto avere nome la via.
Certa cosa però si è che li soprannotati capodieci sono antichissimi perché lungo essi si trovano, come si è detto, delle antiche cisterne vestite di una tonaca consistente. Innanzi alle quali per comodo degli animali e della gente e per non impedire il passaggio si vedono lasciati de’ spiazzi proporzionati. In mezzo a medesimi capodieci poi si vedono oggi cresciute piante grossissime ed annosissime di suscelle e di olivi nati certamente molti secoli doppo che furono formati li capodieci, perché altrimenti sin dalla loro origine avrebbero impedito il fine, perché furono fatti di dar libero il passaggio a chi per essi caminava, e dette piante deve con ragione credersi che si siano lasciate nascere e crescere nel tempo in cui la dissoluzione dell’Imperio Romano e la barbarie sopravvenuta fecero trascurare l’agricoltura.
Quando nel 1778 Ferdinando IV nominò ministro del commercio e della marina John Acton, la sua intenzione era quella di riorganizzare l’economia del Regno di Napoli e per questo bisognava conoscere la reale situazione del territorio. Inviò a tutti i comuni del Regno, nel 1783, una richiesta di informazioni sulla situazione economica, sulla estensione e qualità del territorio. A Mola, per rispondere alla richiesta di Napoli, si formò una commissione composta dai nobili dannatale Roberti e Vito Matteo Martinelli, da due sacerdoti Don Giovanni Martinelli e Don Modesto Petrella e da due massari, Giovanni Coletta e Vincenzo Aloja.
La commissione elaborò una relazione molto dettagliata di quasi 60 pagine, corredata da illustrazioni e dalla descrizione dei settori più importanti dell’economia cittadina ad iniziare dall’agricoltura, dalla pesca, dal commercio marittimo fino ad affrontare problemi sociali come il costo del lavoro e la tassazione abnorme, con riferimenti puntuali alle tecniche di estrazione dell’olio e ai costi di costruzione dei “bastimenti" utilizzati dai malesi nel traffico commerciale adriatico. Tra l'altro si accenna al ritrovamento negli scavi di Ercolano e Stabia di una macchina olearia che l’autore del manoscritto consiglia di utilizzare a Mola.
L’attuale pubblicazione a puntate è il frutto di una puntuale e filologica trascrizione del manoscritto presente da poco tempo sulla Biblioteca Digitale Interculturale ed intende integrare tutti i riferimenti cartacei già elaborati dagli storici molesi nel passato, in particolar modo da Aniello Rogo, che già nel lontano 1976 per primo si occupò del documento.
TERRITORIO E PROPRIETA’
Nel tenimento di Mola non vi sono terre demaniali, ma tutto si possiede in proprietà da particolari: non vi sono fonti, non laghi, non fiumi, non paludi, e forse per questo e per essere la marina tutta scogliosa l’aria vi è pura, sana e ridente: sono radi li pozzi di acque vive dolci: nelle vicinanze del mare e nell’abbitato ve ne sono molti di acqua viva salmastra e di questa si avvalgono gli ortolani l’estate per adaquare gli erbaggi negli orti: si adoperano ancora le salmastre per cucinare e della gente bassa per lavare lor panni: per bevere generalmente si usano le acque piovane, le quali si conservano nelle cisterne e si prendono dai terrazzi, ossia astrichi.
Non vi sono boschi, non macchie, eccetto opere di aratro circa mille che presentemente non si posseggono da’ Molesi: non pascoli per alcuna sorte di animali, non terre incolte, ed è tutto coltivato a zappa e coll’aratro nommeno nella catena delle colline detta la Serra, che nella pianura.
Della estensione del suddetto territorio di Mola non si può dare un calcolo esatto, perché non ostante che ancora vi restino segni certi e fissi de’ confini, vi è controversia con paesi convicini, li quali ne hanno molto usurpato perché occupati li Molesi ed intenti alla celebre causa del demanio, lite continuata nel Supremo Tribunale della Reggia Camera per lo spazio di anni centoquarantatré dal 1612 sino al 1755 in cui ottennero il sospirato decreto della reintegrazione, in tutto questo tempo avevano abbandonato il pensiero di ogni altro loro interesse: tanta è stata la costanza de’ Molesi di conservarsi sotto l’immediato Real Dominio, che oltre il gravosissimo dispendio di una lite tanto lunga e strepitosa, per cui tanto nel passato secolo che in questo si sono adoperati li più famosi avvocati tutti inalzati a posti della Suprema Magistratura, e di avere sborsato ben due volte il prezzo delle prime e seconde cause, tutti intenti ad ottenere quel fine, non curavano di spogli sofferti e di pregiudizi infertili da vicini, e solo gelosi di conservarsi la libertà hanno trovato anche il modo come nell’anno 1755, fatta la sentenza definitiva e posti in possesso del Regio Demanio pagare al Reggio Fisco un donativo promessogli di ducati diecimila.
Le produzioni del territorio di Mola sono olio, suscelle ossiano carobbe, mandorle, vino, pera, grano e biada, fave ed altri legumi, cotone ed erbaggi: olio, suscelle e qualche poco di mandorle se ne imbarcano per fuori Regno con bastimenti propri: nelle annate di abbondanza colle proprie barchette si trasporta il superfluo delle pere nella Puglia piana. Di vino, grano e biade, fave, legumi e cotone per la strettezza del territorio non produce il consumo necessario per li cittadini li quali devono provvedersi del loro bisogno a contanti da’ convicini paesi mediterranei, così pure per le carni da macello e tutti gli animali per gli lavori alla campagna e per lo servizio di carri e delle persone.
Si pone frattanto il suddetto territorio comprendere opere di aratro n° diecenovemila: ogni opera ha ordini venticinque, ed ogni ordine ha finestre cinquanta: una finestra è lo stesso che un compasso: il compasso alla misura di Mola ha palmi sei e un sesto: l’aia dunque ossia la superficie di un’opera di aratro in Mola comprende palmi quarantasettemila cinquecento trenta quattro e mezzo quadrati.
Delle sopradette opere diecenovemila sono cioè:
seminatoriali opere n° 4800
oliveti, suscelle e pera opere n° 11800
vigneti opere n° 2300
giardini d’agrumi e d’altra frutta opere n° 100
____________
Totale opere n° 19000
Le terre seminatoriali parte sono vicine al lido del mare e dall’altra della via che il procaccio fa andando da questa alla provincia di Lecce, ch’è la stessa che l’antica via Traiana, e si chiamano dette terre seminatoriali volgarmente Penne. Quelle che sono più vicine alla città si coltivano ad erbaggi, le altre più lontane si coltivano alle volte ad erbaggi e le altre a semina. Dentro queste Penne vi sono li pozzi di acquaviva salmastra per adacquare gli orti. Le Penne sono terre sciolte, cioè non occupate da alcuna pianta, eccetto qualche albero di gelso moro posto sopra li pozzi e palmenti per far capanna e ombra l’estate agli ortolani. Queste Penne tutte si computano opere di aratro n° novecento.
Le altre terre seminatoriali sono nei luoghi detti Spinazzo, Gaveglia, Capullo, Torre delle mule, Pozzovivo, Brenca, e Titolo, li quali luoghi sono nella pianura a Monte della Serra ossia della descritta catena di colline.
In queste terre vi sono tramischiate molte piante di pera, di mandorle e di altre varietà di frutta. Si computano opere tremila novecento, le quali colle opere novecento di Penne sommano le sopranotate opere quattromila ottocento di terre seminatoriali.
Le terre di Pozzovivo sono terre forti, dense e profonde: in esse non vi sono pietre framischiate, né scavandosi se ne trovano sotto: soffrono la siccità e della mancanza della pioggia non ricevono tanto danno, quanto le altre terre: ben letamate e preparate ordinariamente fruttano l’uno otto, l’uno dieci. Nelle Penne le terre sono parte leggieri, parte grasse e parte putri, il terreno non va più profondo di palmi due, tre o al più quattro e sotto vi si trova lo strato di tufo continuato: in alcune di queste terre si sogliono cavare e tagliare li tufi per la fabbrica delle case: l’ordinario prodotto di queste è l’uno sette, l’uno otto ed alcune ben coltivate e letamate hanno fruttato sino l’uno venti. Le terre di Brenca, Titolo sono terre leggieri; sulla superficie e nel terreno vi sono framischiati pezzi sciolti di pietre vive di varia grandezza di uno, due, tre palmi, e di altri rottami e alla profondità di palmi due e tre si trova lo strato fisso e continuo di sasso vivo: soglio fruttare l’uno cinque, l’uno sei, l’uno sette: tutto il territorio vigneto ed oliveto è simile generalmente al qui sopradescritto di Brenca e Titolo.
Li vigneti ve ne hanno porzione alla marina della contrada di Santo Egidio, queste sono tutte vigne vecchie e poco fruttano: vi sono in esse piante di fichi, di pera, e di altre frutta, alcuni seminano: si computano opere n° cento.
Le altre vigne sono nella pianura a Monte della Serra nella contrada detta Titolo, Brenca, Pozzovivo, Capullo, Torre delle Mule, Gaveglia e Spinazzo: si computano opere due mila e duecento che colle opere cento di vigne a Santo Egidio sommano le sopradette intiere opere duemila e trecento di vigneti.
Tutto quello che vi resta del territorio così nella pianura o il mare o la serra, che sopra le spalle della serra suddetta è vestito di ulivi, suscelle, e pera mescolati insieme, eccetto le cento opere di giardini di agrumi, e d’altre frutta vicini alla città cinti di alte mura a calce.
Delle sopradette opere diecinove mila comprese nel tenimento di Mola sono possedute dai corpi ecclesiastici secolari, regolari e da’ luoghi pii:
OLIVETI SEMINATORIALI VIGNETI GIARDINI TOTALE
Reverendo Capitolo 815 23 3 1
Padri Domenicani 279 29 17 1
Monache
Santa Chiara 108 23 3 3
Monte de’ maritaggi 42
Ospedale 5
Monte del Purgatorio 92
Confraternita
del Rosario 6 e mezzo
Confraternita
dell’Assunta 5
Confraternita del
Sagramento 29 4
____________________________________________________________
1381 e mezzo 79 235 14881
____________________________________________________________
Il suolo delle campagne di Mola da quanto si è cennato si conosce essere buono ed atto ad ogni genere di produzione: produce olivi, suscielle, mandorle, pera, ogni varietà di frutti freschi, agrumi, grano, biade, fave, legumi, cotone ed altro, e perciò non manca da faticare alli lavoratori in ogni mese dell’anno, e quantunque il suolo sia sassoso, sembra che questa qualità conferisca molto alle piante, giacchè manifesta cosa è che terminati i sassi nella Lama detta di Bisceglie in poi andando verso Trani, non si vedono per tutta la estensione della Puglia piana alberi ma vaste pianure di terre nude buone ed usate per semina e pascolo.
In questa palatorte l’anonimo autore della relazione analizza nei particolari le coltivazioni più diffuse nelle campagne molesi: le olive, l’uva da vino, il grano e la biada. Nello specifico si rileva che le cultivar di olive più presenti sul territorio erano le pizzutole e le celine meno soggette al “verme e alle nebbie” e venivano raccolte dal terreno per caduta naturale.
L’uva da vino era diffusa nella terra di mezzo, tra il mare e le colline di San Materno: per la potatura veniva usato uno strumento chiamato ronciglione, mentre la terra veniva coltivata con la zappa lata.
Nelle terre delle contrade di Pozzovivo e Brenca, ritenute profonde e grasse, si seminava grano e biada: i buoi aprivano i solchi e i contadini con le zappe strette ricoprivano la semenza.
L’autore dello scritto, per arricchire le argomentazioni, fa riferimento a due personaggi importanti della letteratura agricola: il marchese Domenico Grimaldi, economista e uomo politico del Regno di Napoli, autore di un notevole studio per migliorare le tecniche di estrazione dell’olio nel 1700.
L’altro autore più volte citato è Lucio Columella, scrittore romano di agricoltura vissuto nel I secolo dopo Cristo e famoso per un trattato “De re rustica" ritenuto per secoli un punto di riferimento per l’approccio scientifico e pratico al settore.
AGRICOLTURA E TECNICHE DI COLTIVAZIONE
Li cittadini di Mola sono naturalmente industriosi, pazienti della fatica ed atti al commercio e all’agricoltura.
Della maniera colla quale si coltivano li poderi in Mola narreremo solo quello si usa da più diligenti e da coloro che hanno la volontà, la scienza e la facoltà di poterla praticare.
La coltivazione degli ulivi consiste nel roncare le spine per far netta la terra, acciò dia tutto il nutrimento alle piante, e non siano quelle e l’altre erbe d’impedimento all’aratro: per roncare si adopera un genere di zappe chiamate zappe strette ed anche zapponi. Si arano gli oliveti due volte l’anno, da più diligenti tre volte a da alcuni pochi vi si fa la quarta aratura doppo cascate le acque nel mese di settembre. Si potano un anno si un anno no: è solito anche zapparsi gli ulivi e le suscelle e da alcuni anche le pera vicino e attorno la ceppaia, per dove non può passare l’aratro: da alcuni si scalzano, o come qui dicono si sconcano e si letamano. Tutti li polloni detti in latino stolones, li quali nascono sulla ceppaia e nel tronco si tagliano, e questa operazione per non far ferite alle piante, conviene farsi con l’accetta e non con zappe: questa diligenza di tagliare li polloni usata in Roma nei tempi del buon senso della Repubblica da’ Licini fece lor dare il cognome di Stoloni.
Le olive in Mola si raccolgono come cascano per loro stesse, né si battono per farle cascare a differenza degli altri luoghi della provincia, che sono situati alla marina, che infraterra dalla parte di Bari sino a Bisceglie, dove terminano gli oliveti di questa provincia: la diversità nasce dalla varia qualità delle olive da noi, così pure in Polignano, Monopoli, Ostuni e buona parte della provincia di Lecce sono olive chiamate pizzutole, forse perché hanno come un pizzo alla punta, sono lunghette e picciole: li rami di queste piante naturalmente sono intralciati, e le olive sono tenacemente attaccate a loro piccioli in modo che se si battono non cascano, e battendosi si vede spesso restar l’osso attaccato al picciuolo, e saltar fuori la polpa. Le olive, le quali sono dalla parte di Bari si chiamano qui celine, in Bitetto e in quelle vicinanze si chiamano olive comuni; queste sono più grosse, li rami più chiari e rari, e perciò riesce più facile farle cadere percuotendole colle verghe: questo genere è più, che le pizzutele, soggetto al verme e alle nebbie le quali sono più spesse e dominano in Mola, e negli altri notati luoghi di queste, e nella provincia di Lecce, e questo si crede essere stato il motivo per cui gli antichi ammaestrati dalla esperienza hanno usato in questi luoghi piantare e innestare olive pizzutole, e negli altri luoghi olive celine.
La maniera che si pratica in Mola per cavare la maggior possibile quantità di olio dalle olive è stata tanto ben descritta dal Sig. Marchese Don Domenico Grimaldi assessore di codesto Supremo Tribunale delle Finanze in una delle sue memorie uscita dalla Stamperia Reale e presentata alla Maestà del Sovrano, che noi ci possiamo rimettere volentieri a quel che si legge nelle medesime. Le vigne si coltivano col potarsi, col zapparsi, col masciarsi, ch’è la seconda volta zapparle, col soverchiarsi ch’è il pampinare dei Latini e col polverarsi, ch’è la terza volta zapparsi detto anche da Latini pulverare ma questo si fa da assai pochi possessori.
Si potano le vigne coll’istrumento chiamato ronciglione, quale è simile a quello usato dagli antichi chiamato da essi falx vinaria, la quale ce l’ha lasciata disegnata Columella nel capitolo 25 del libro IV, ma il nostro ronciglione non ha il mucrone: si zappano colla zappa lata, generalmente si zappano ad ordini, ossia a gran solchi, si usano però varie maniere di zapparle secondo il vario genere e costume delle persone.
Sono le viti in Mola ed in tutta la provincia portate basse ed affasciate col loro medesimi tralci si sostengono senza l’appoggio di pali o di altre piante, come si pratica in Terra di Lavoro: sembra che di queste intese dire Columella nella descrizione che nel capo IV del libro quinto fece delle vigne provinciali “Vinearum provincialium plura genere esse comperi, sed ex iis quas ipse cognovi maxime probatur velut arbor sculae brevi crure adminiculo persestantes”.
Le uve vengono a perfettissima maturità e sono di un sapore gratissimo, ma li vini per non sapersi manipolare non sono di lunga durata, né squisiti quali potrebbero riuscire.
Praticano per fare li vini tagliare le uve, pigiarle, o come qui dicono pestarle, il che si fa a piedi nudi, tenerle uno, due, o tre giorni ne’ palmenti formati la maggior parte di pietre vive; quelli che hanno poche uve sogliono adoperare tine di legno: dopo premonsi le uve sotto il torchio, de’ quali ve ne sono di varia costruttura, imbottano il mosto col trasportarlo da’ palmenti alle cantine quasi generalmente in otri di pelle, poi come fermentando per bollire scemano le botti così le vanno riempiendo di mosto e finalmente le turano e le lasciano stare.
Le terre da semina si preparano col roncarle, col letamarle, coll’ararle due, tre e quattro volte secondo la facoltà dei possessori, e nella terza, quarta ed alcuni nella quinta aratura le seminano.
La semina del grano e biada generalmente si fa collo spargere la semenza: il grano alcuni seminano a solco, un solco si un solco no, e questa maniera si conosce a prova, ch’è più vantaggiosa: nell’atto che si semina dietro li bovi vanno li zappatori, li quali colle zappe strette ricoprono la semenza e rompono le zolle ( oceant): poi a tempo opportuno doppo nata la semenza si zappano colle zappe strette o zappolle ( sarriuntur): finalmente nel mese di aprile, o principi di maggio si svelgono colle mani l’erbe nate e cresciute tra li grani seminati alla rinfusa, che si dice masciare: li grani seminati a solco la prima volta, e poi la seconda nello stesso mese di aprile si zappano colle zappe late: con questo si alza quanto si può in prima volta la terra e la seconda si levano l’erbe, e si fa cadere il terreno in faccia col seminato: questa maniera di seminare e di zappare mostra l’esperienza fare molto prò alla quantità e qualità del grano: lo stesso spazio di terra seminata a solco richiede la metà della semenza e produce tanto grano e più, quanto nello stesso spazio ne produce il doppio della semenza sparsa e si ha anche il vantaggio che la stessa terra si può seminare ogni anno: il grano viene meglio nutrito e non sta tanto soggetto alla siccità.
In un’opera d’aratro delle descritte terre di Pozzovivo, che sono terre profonde e grasse, sogliono questi contadini spargere un tomolo di grano di semenza nelle terre di Brenca e nelle altre, e nelle Penne che sono terre mediocri dove sei dove sette stoppelli: la ragione ch’essi adducono si è che le terre grasse se non sono caricate di semenza, viene questa soffocata dall’erbe che da sé produce il terreno, il che non avviene nelle terre mediocri: Columella però nel capo nono del libro secondo precetta il contrario insegnando come nel campo grasso si seminino quattro modi di grano, e nel mediocre cinque.
Mola all’apice del commercio marittimo con il Levante, le isole greche e la Repubblica di Ragusa, l’attuale Dubrovnik, e in seguito con te città di Ferrara, Venezia e Trieste: questo è il quadro storico che ci consegna la quarta parte del manoscritto settecentesco dedicata alla descrizione della flotta commerciale e peschereccia.
Carrube, grano, mandorle e soprattutto olio era il carico dei trabaccoli, pandore e piferi. In particolar modo l’olio molese era ritenuto pregiato per l’alimentazione ma era utilizzato anche nelle cererie e saponifici dell’alto Adriatico. L’anonimo autore della relazione entra nei dettagli costruttivi delle imbarcazioni il cui legno si importava da Trieste, dall'Istria, da Monte S. Angelo ma anche da Conversano e Rutigliano. Le vele invece erano importate da Lubiana e dal Carso, catrame e pece dall’Albania.
Nonostante l’insufficienza logistica del “tenitore”, la flotta commerciale garantiva a Mola l’esportazione dei prodotti agricoli con un grande ritorno economico per la comunità.
Nel porto di Mola nel 1783 erano presenti anche 23 barche e 7paranze che garantivano pesce abbondante ma anche costituiva un ottimo “seminario” per i giovani marinai che dovevano affrontare poi le rotte commerciali.
MARINERIA E TECNICHE CANTIERISTICHE
Per lo traffico si servono li Molesi di bastimenti propri: ne’ secoli trasandati facevano il loro commercio nel Levante e colla Repubblica di Ragusa, con questa e con alcune isole dell’arcipelago greco vi avevano de’ trattati de’ quali vi restano ancora memorie autentiche: con questi trattati si davano vicendevolmente certe franchiggie e si riguardavano come concittadini: pochi anni addietro trovandosi in Ragusa un bastimento di Mola nel giorno del Corpus Domini quel magistrato cedè al padrone le mazze del Pallio in segno di essere a parte della loro cittadinanza.
Ora il traffico de’ Molesi è ristretto colle sole piazza dell’Adriatico, Ferrara, Venezia e Trieste, ne’ lungamente questo traffico colli bastimenti propri durar puote, poiché essendo quasicchè rovinate le muraglia della città dalla parte del mare, alle quali per non aver altro si legano le gomene, li bastimenti stanno in continuo pericolo e soggetti a naufragarsi, come non rari sono avvenuti li casi, giacchè altro ricovero non hanno che una lingua di terra sopra cui è posta la città che li difende, e copre solo dal vento di tramontana, ma lasciano esposti a tutto l’impeto del greco e del levante, li quali venti infieriscono nell’Adriatico.
Considerata da’ Molesi la rovina che dalla distruzione del commercio e dalla mancanza de’ bastimenti propri sarebbe necessariamente succeduta alla di loro patria, fecero anni addietro ricorso alla Maestà del Sovrano per avere il permesso di potersi costruire un tenitore per ricovero de’ bastimenti: alle suppliche della città e cittadini la Maestà del nostro Clementissimo Sovrano annuì: si sono perciò fabricati molti e vari atti nel Supremo Tribunale del Commercio e della Reggia Camera; si sono prese informazioni dalla Udienza Provinciale: se ne sono formate varie piante, l’ultima del sig. Brigadiere Don Giovanni Buonpiede: si sono presentate ed accettate le offerte, ma non si ha avuto ancora l’assenso della Reggia Camera e si stanno facendo le premure per ottenerlo.
La mancanza del tenitore è una potente causa che in Mola non migliori l’agricoltura e se non vi si costruisce vi è ragion da credere che l’agricoltura deteriori non solo in Mola, ma ancora nei paesi vicini mediterranei, dove vi restano tuttavia molti terreni incolti e macchiosi, li quali tutti sarebbero ridotti a coltura se quelle popolazioni fossero certi di avere pronto lo smercio del loro superfluo, ilp che non altronde può venire se non che da un porto, ossia tenitore vicino che abbia acqua proporzionata a bastimenti mercantili, onde si scemino le spese del trasporto delle merci alla marina. Li Molesi allora non farebbero fabricare li loro bastimenti col fondo piatto, come ora usano essi e li Veneziani memorati perciò al Presidente Montesquiù nella sua opera dello “Spirito delle Leggi”, ma farebbero costruirli di taglio e il loro commercio non si restringerebbe nel solo Adriatico, ma sarebbero in grado di uscire dal golfo.
Vi sono presentemente in Mola undici bastimenti paesani da viaggio, cioè otto trabaccoli, due pandore ed un pipero.
Gli otto trabaccoli secondo la stima fatta dalla dogana sono rispettivamente alla portata dalle pile sedici alle pile venticinque ossia di salme centosessanta a salme duecento cinquanta ogli misura di dogana: la portata delle pandore una è di pile ventotto, l’altra di pile trentadue, la portata del pipero è di salme duecento cinquanta.
Le pandore e il pipero sono a due coverte: li trabaccoli nei tempi passati si facevano ad una coverta, ma presentemente quasi tutti si fanno a due coverte per essere più sicuri in mare.
Questi bastimenti si costruiscono in Mola istessa coll’assistenza de’ peroti della stessa provincia: in Mola presentemente non vi è peroto e quando si forma qualche nuovo bastimento si fa venire quello vi è nella città di Molfetta. Questi peroti non hanno che la sola pratica ma nessuna teoria e fanno l’opera come l’hanno veduto fare da loro predecessori.
Il legname per la costruzione di detti bastimenti si fa venire dal Monte di S. Angelo; il detto legname la maggior parte è di cerro, ma è di qualità dolce, spugnoso e soggetto alli vermi chiamati vescie; è però liscio e si hanno pezzi sino della lunghezza di palmi settanta e della larghezza di palmi uno e mezzo.
Si adopra ancora in parte talvolta legname dei vicini boschi di Rutigliano, Putignano, Conversano e le Noci paesi posti infraterra. Questo legname è di cercola vera e di miglior qualità di quello del Monte perché è più duro, non è spugnoso, è amaro e non sta soggetto tanto quanto quello del Monte alli vermi: è però legname corto non potendosi aver pezzi di lunghezza maggiore di palmi dodici: non è servibile per madieri, ma ottimo per ossatura. Di questo però non se ne può avere il bisogno.
Riferiscono li marinari che il legname d’Istria, dominio dei Veneziani, similmente sia di cercola e migliore di quelli de’ succennati boschi e che colà si hanno pezzi della lunghezza di palmi trenta e quaranta e della larghezza di un palmo, e che sia buono per ossatura e per madieri, e che da colà non ne sia impedita l’estrazione, ma che costa più caro.
Si compra il legname nel Monte di S. Angiolo a tiro: si chiama tiro tanta quantità di legname quanta ne può tirare un paio di bovi: ciascun tiro costa condotto in Mola carlini 18 circa: sei madieri di once due grossi, di palmi quaranta lunghi, e di palmo uno e mezzo larghi formano quattro tiri.
Per formare un bastimento sia trabaccolo, ossia pandora, giacchè la costruzione è la medesima, della portata di pile trenta, ossiano salme trecento ogli misura di dogana ci bisognano di legname tra piani, piedi, corbe, zappoli, madieri, tiri cento cinquanta, che alla ragione di carlini diciotto il tiro costano ………………………………………………………….. 270 carlini.
- Per segatura di madieri si sogliono pagare tornesi tre a palmo, ma per le corbe, piani, piedi e zappoli meno: si computa che tutta la spesa della segatura importi………….....................………………………………..70 carlini.
- Oltre la notata sorte di legname si adoprano per la coverta tavole chiamate di ponti, le quali in Mola si fanno venire da Trieste: se il bastimento si fa ad una coverta vi bisognano ponti sessanta: se a due coverte ponti cento: ciascuna tavola di ponti condotta in Mola da Trieste calcolato il primo costo, il nolo e la dogana vale grana venticinque: cento tavole costano …....................................................................................................…25 carlini.
- Vi bisognano cantaro dodici di ferramenti. Ciascun cantaro costa in Trieste circa lire cento diecessette che al pari sono ducati tredici e grana quarantasette: Si pagano di nolo carlini cinque a cantaro: docati cinque si esigono per la terzeria; carlini quattordici e grana due si esigono dalla dogana, stimandosi ogni cantaro docati dodici, che formano oncie due, e facendosi pagare grano settantuno per ciascuna oncia, e più grana trenta per diritto chiamato di peso grande e di peso picciolo: onde ciascun cantaro di ferramenti condotto in Mola, pagati il nolo e la terzeria, il peso costa docati venti e grana sessantanove: dodici cantara condotti in Mola costano …..................................................................................................…… 248, 28.
- Vi bisognano cantara sei circa di catrame: questa di parimenti si fa venire da Trieste, dove di primo costo docati quattro e grana sessantasette il cantaro; di nolo si pagano carlini sei a cantaro: condotto in Mola ciascun cantaro, senza li diritti si pagano all’arrendamento ed alla dogana costa ducati cinque e grana trentasette. Sei cantara vagliono docati ...…..…..32,22.
- Vi bisognano ancora cantara sei di pece dura; questa viene da Trieste, ma colà viene portata dall’Albania, dove raccogliesi: costa in Trieste docati due e grana sette circa il cantaro: il nolo importa carlini sei a cantaro; ciascun cantaro, oltre i diritti all’arrendamento della pece, ed alla dogana costa docati due e grana sessantasette: sei cantara vagliono ....……………………. 18,02.
- Vi bisognano cantare tre di stoppa incatramata: questa si trasporta in Mola da Trieste e da Venezia: costa colà docati quattro il cantaro: di nolo si pagano carlini cinque a cantaro: tre cantaro vagliono ..…………………13,50.
- La spesa della maestranza de’ marangoni, de’ calefati e del peroto importa circa ............................................................................................………… 150.
- Sicchè il corpo di un bastimento fatto negro e posto in acqua costa circa .........................................................................………………….....……825,02.
- Se detto bastimento si vuole armare a trabaccolo, cioè a dire a due alberi; li detti due alberi in Trieste, dove si comprano, costano zecchini undici che alla ragione di carlini ventisei e mezzo l’uno sono docati ventinove e grana quindici moneta di Regno: di nolo si pagano docati otto; condotti in Mola costano ....……………………………………………………………………37,15.
- Pennoni quattro per le vele comprati lavorati e condotti in Mola costano ................................................................................………………………10,50.
- Sartiame che pur si compra a Trieste ...……………………………………. 20.
- Taglie numero quaranta tra picciole e grandi in Trieste costano ...............................................................………………………………………12.
- Timone in Trieste costa ..…………………………………………………. 10,60.
- Le vele le quali sono di tela di Lunetta, e si lavora e si fa venire da Venezia costano .........................................................................................………. 150.
- E comecchè li suddetti trabaccoli sono addetti a caricare ogli, ciascuno di essi ha bisogno di due taglie da campana e di uno ammazzaprete, le quali in Trieste si pagano ................................................………………………………8.
- Ha bisogno parimenti di due rise, una per l’ammazzaprete, e l’altra per issare le botti, e di un mante: queste in Trieste si pagano .....………………………………………………………………………………… 15.
Ciascun trabaccolo porta tre gomene; la grande, la mezzana, la picciola, e due altri cavi, uno per lo caicchio e l’altro chiamato il prodese.
- La grossa suol pesare libbre seicento ed in Trieste dove si compra costa ...............................................................………………………….................. 69.
- La mezzana pesa libbre quattrocento cinquanta costa ............……... 51,75.
- La picciola pesa libbre quattrocento costa ...............……………..……… 46.
- Li cavi da caicchio e prodese del peso libbre trecento costano ............................……........…............................................…………….. 34,50.
- Oltre questa la spesa de’ cavi minuti importa altri …...…..………………. 20.
- Ha bisogno ancora un trabaccolo della mentovata portata di pile trenta di tre ancore; della grossa che pesi almeno libbre cinquecento, della mezzana di libbre trecento, e della picciola di libbre duecento cinquanta e del ferro da degomare di libbre cento trenta, che tutti in Trieste, dove si comprano, costano circa ……………………....……….…………………………………. 116.
- Zucchi numero tre per l’ancore costano circa ………………………………..8.
Sommano 608,60
Sicchè un trabaccolo fatto nero, e posto in acqua atto a navigare oltre la spesa de’ moschetti, pretriere ed altre armi costa ..…………………………………………………………………………….1433,62.
Se il corpo del bastimento si vuole armare a pandora vi bisognano le seguenti spese cioè:
- Per alberi numero tre ...………………………………………………………. 30.
- Per due pennoni della maestra e della gabbia ………………..………..13,25.
- Per altri due pennoni del trinchetto ……..………………………………… 2,35.
- Per pennoni della mezzana, contromezzana e pennone da fuoco ……….. 3.
- Per lo timone ………………………………………………………………. 13,25.
- Per le vele della maestra, della gabbia e del trinchetto di tela di Lunetta ........................................................................................…………………..200.
- Per le vele dalla zibibba, mezzana, contromezzana e garofolino di tela cragnizza, la quale si lavora in Lubiana ed in altri luoghi del Carso, e si compra in Trieste ……………………………………...………..................….. 30.
- Le taglie ordinarie …………..……………………………..…………………..20.
- Le taglie da campana, l’ammazzaprete, rise e mante quanto quelle de trabaccoli costano …................................................................................... 23.
- Per sartiame ……….....……………………………………………………….200.
La pandora porta tre gomene:
- La grossa di libbre ottocento costa circa ………………………………. 82,40.
- La mezzana di libbre seicento costa ……………….……………………… 69.
- La picciola di libbre cinquecento costa ……...…………………………. 57,50.
- Cavi per caicchio e prodese libbre cinquecento costano ..…...………. 57,50.
- Cavi minuti libbre trecento costano …………………………………….. 34,50.
- L’ancora grossa della pandora suol portare di peso libbre seicento cinquanta costa …......................................................................….…… 74,75.
- La mezzana libbre cinquecento costa ......……………………………… 57,50.
- La picciola libbre trecento cinquanta costa …………………………….. 57,50.
- Ferro da degomare libbre cento quaranta costa ………….…………… 18,10.
- Zucchi per dette quattro ancore ………….................………………….. 18,90.
La spesa per armare un corpo di bastimento a pandora importa ….............................................................……………………………… 1041,35.
La quale somma aggiunta alla spesa sopranotata per far nero il corpo del bastimento ascendente a …………………………………………………… 825.
Costa la pandora fatta nera atta a navigare …….……………………. 1888,57.
Il pifero costa quanto la pandora, della quale differisce solo che invece del trinchetto ave a prora il palaccone, ossia politrone.
Allorchè il Regno non era stordito e conosceva li suoi veri vantaggi, la città, suoi cittadini e gentiluomini supplicarono nell’anno 1496 la Maestà del Re Federigo degnarsi concederli, che volendo fare alcuna nave seu navilio di donargli un ducato per botte, e di fargli franchi di ogni dogana e gabella anche di boschi per lo legname e ferro, pece e stoppa che li sarebbe bisognata e ne ottennero il beneplacito reggio confermato dal Gran Capitano nell’anno 1503, e dal Re Ferdinando il Cattolico nell’anno 1505.
Ora però non solo non hanno gratificazione di sorte alcuna quelli che fanno navilj, ma devono pagare a rigore tutti li pesi, come ciascun altro sopra il ferro, la pece, tavole, il che certamente si deve credere essere abuso introdotto dagli appaltatori per la impotenza dei negozianti di far valere le loro ragioni: giacchè ricorrendo la spesa non sarebbe indifferente e ciascuno dovrebbe spendere per sé non essendovi nel Regno alcuna sorte di collegio di negozianti, il quale sostenga gli interessi del commercio e faccia causa comune.
Ciascun trabaccolo suol portare otto marinari incluso il padrone, e ciascuna pandora e così anche il pipero dieci marinari incluso similmente il padrone, e perciò sono impiegati negli otto trabaccoli, nelle due pandore e nel pipero novantaquattro marinari, li quali sogliono chiamarsi marinari da viaggio.
Questi marinari sono molto pratici del golfo e specialmente dei porti della Dalmazia, essendo soliti li bastimenti andare e ritornare da Venezia, Ferrara e molto più frequentemente da Trieste due e tre volte l’anno; sono tutti atti ad andare a serrare le vele alle pandore e di guidare per questo golfo un bastimento.
Se si avesse in Mola il porto o un tenitore, che li rendesse sicuri, si costruirebbero bastimenti di altro taglio, e li marinari diventerebbero atti e sarebbero in grado di uscire dal golfo e navigare in altri mari e si moltiplicherebbe questo giro di persone.
Oltre de’ suddetti trabaccoli e pandore destinate al traffico vi sono in Mola venti tre barchette, le quali pescano con vari ordigni: ciascuna barchetta porta quattro uomini, onde vi sono in esercizio novantadue pescatori addetti a quest’arte.
Vi sono ancora sette paranze, le quali pescano a due barche: ciascuna paranza porta otto uomini e due figliuoli: sono dunque impiegati in questo mestiero settanta persone: queste paranze si sarebbero moltiplicate, ma la proibizione di poter pescare dal mese di maggio per tutto il mese di settembre colle medesime sul timore che poi negli altri mesi manchi il pesce ha scoraggiata la gente di fabricarne le nuove, e per un lontano sospetto che manchi negli altri mesi dell’anno l’abbondanza del pesce, il quale non è genere di prima necessità per sossistere si è tolta a tante persone la facoltà di potersi guadagnare colle loro fatiche il pane per sostentarsi, giacchè le barche di paranza non servono per altro mestiere e restano quei poveri pescatori per cinque mesi dell’anno privi del modo di sostentare se stessi e le povere famiglie loro; il che è male gravissimo per le città marittime della Provincia, giacchè tutte quelle che sono poste sul mare hanno le loro paranze, ed un numero grande ne hanno specialmente Barletta, Trani, Molfetta e Bari, e mancando a tali pescatori la maniera di procurarsi il vitto con quel genere di fatica alla quale si sono avvezzati sin dalla loro fanciullezza potrebbe succedere il caso che questi per disperazione si mettessero nelle pubbliche strade a rubare: oltrecchè volendosi aumentare la marina del Regno ed il commercio, il loro mestiero è il più atto a poterlo fare aumentare, come quello che è il seminario più proprio per far nascere buoni, robusti ed attivi marinari, ed è una supposizione il credere che sia diminuita la quantità del pesce, perché si vende più caro, perché questo non dipende dalla diminuzione del pesce per causa delle paranze, ma dal maggior consumo che se ne fa per essere cresciuta la popolazione e per trovarsi più aggiata di quello era nei tempi passati: se dalli prezzi alterati de’ generi senza aver conto della popolazione e della quantità del numerario si dovesse argomentare della loro scarsezza ed abbondanza, dovessimo conchiudere che perché tutto si compra più caro nel Regno presentemente si ricoglie meno grano, meno olio ed ogni altra derrata: il che è contrario al vero: per chiarirsi di questa verità si camini il Regno e si guardi quanto è avanzata la coltivazione de’ terreni.
Ma oltre la mancanza del tenitore per cui non si aumenta il numero de’ bastimenti da viaggio, e non si formano dei altra costruzione, oltre la poca cura che si ha nel favorire la pesca, la quale suol essere abbondante seminario di marinari senza li quali mezzi non si può avere commercio, né può prosperare l’agricoltura, vi sono altre cause le quali snervano lo spirito d’industria de’ molesi, e quasicchè l’annientiscono.
Quando il prof. Zimmermann (dia fine de! ’700 visitò il Palo di Malfatta per valutare la qualità del salnitro naturale, sulla costa pugliese erano presenti molte località, tra queste Mola, dove si produceva il prezioso minerale utile per la fabbricazione della polvere da sparo, vitale in quel periodo all’esercito borbonico. Le fabbriche del salnitro artificiale collocate in riva al mare impiegavano materiale vegetale, in questo caso posidonia e alghe, mescolato con feci umane e animali che le autorità borboniche obbligavano a consegnare alle nitriere: in questo modo però veniva a mancare il naturale concime, sterco animale soprattutto, che i figli dei contadini raccoglievano in prima mattinata nelle ceste per trasportarlo poi nei campi.
A Mola la fabbrica di salnitro era collocata probabilmente nella zona di Loreto e questo è il senso delle lamentele presenti nella quinta parte della relazione: “mancando il letame di asini, mule e cavalli manca il sugo alle campagne”.
Ma gli autori della relazione si soffermano anche sui notevoli danni che ladri ma anche greggi di pecore e capre provocavano alle campagne malesi. In questo contesto vani si rivelavano i ricorsi dei proprietari alla giustizia. Particolare è la denuncia del libertinaggio frequente tra giovani contadini al ritorno serale dalla campagna ma anche l'usanza per i braccianti di consumare spesso nella taverna la paga giornaliera: “se la mangiano e bevono lasciando digiune mogli e figlie”.
PROBLEMI SOCIALI
Ciascuno sa quanto il concime sia necessario a far lieti li seminati e le piante. E’ un assioma tra contadini che il letame fa miracoli: li primi esercizi ne’ quali iniziano li loro figli ancor teneri sono di por loro la mattina al braccio una cesta, ossia paniere che al ritorno poi in casa devono riportar pieno di letame di asini, mule, o cavalli. Dal tempo però, che in Mola si è voluto situare la fabrica del salnitro manca questo sugo alle campagne con danno notabilissimo all’agricoltura, de’ particolari e del Reggio Erario giacchè per tal mancanza le terre non si possono seminare in ogni anno, la rendita non corrisponde alle spese, le piante non danno il frutto che si poteva sperare, e ciascuno per l’ordine posto nella natura tralascia di fare quello che gli è dannoso, e da cui doppo averci faticato e speso non ricava utili o qualche competente vantaggio. E vi è anche un male maggiore, che li salnitrari per non molestare li padroni del letame o estorquono danaro da questi, o non essendo come essi si esprimono ben regalati, si prendono a forza il letame, e poi lo rivendono ad altri senza usarlo per la confezione dei salnitri.
E’ di grandissimo impedimento ancora all’agricoltura la folla dei ladri li quali non solo rubano il frutto, ma nel ricoglierli e strapparli maturi ed acerbi miseramente spezzano e fracassano i rami, e quello che merita tutta l’attenzione e governo per farne legna a colpi di accetta, tagliano li tronchi degli alberi e ne fanno scheggie, ossiano lasche come qui dicono, e fanno seccare le piante, e crollare e cadere spinte dall’urto del vento, o tirate dal solo proprio peso de’ rami e delle frondi: razza di uomini puniti meritamente dalle leggi romane come ladroni.
Vi sono ancora di quelli che da’ paesi convicini introducono nel territorio animali pecorini e caprini, e questi non vi fanno crescere nuove piante, non vi lasciano allevare innesti ed avvelenano tutto quanto toccano col loro dente. Quanta rovina questo arrechi alla coltivazione noi non sappiamo esprimerlo: certo è che Virgilio penetrato dal gran danno che gli animali cagionano alle piante ed alle viti, nel secondo delle Georgiche usò per ciò le più enfatiche espressioni: “ frigora nec tantum cana concreta pruina, aut gravis incumbens scopulis arentibus estas quantum illi nocuere greges, durique venenum, dentis et admorso signata in stirpe cicatrix”.
Riguardo alli ladri è cosa miserabile nel tempo del ricolto delle suscelle che è frutto che si ricoglie per la sua grossezza in pochi giorni e con facilità, mirare i ladri trascorrere a truppa le campagne, ed a vista de’ padroni ricogliersi il frutto e trasportarselo, e se qualcuno l’impedisce li resistono. L’isperienza in Mola ha dimostrato che coloro li quali hanno maggior genio alla campagna sono quelli, li quali maggiormente se ne disgustano, perché quanto maggior è la cura e la spesa di coltivare il campo e gli alberi, tanto è più doloroso che siano rapiti li frutti da ladri e che da questi e delle civili società animali siano fracassate e mandate in rovina le piante: meritatamente Columella nel capo 3 del libro primo approvando la sentenza di Catone il Vecchio presenta che nella compra del podere si guardi e si consideri chi stia vicino, giacchè l’istoria avea dimostrato che per non soffrire li mali e detestabili vicini, non solo molti privati avevano abbandonato le loro proprie possessioni, ma popoli intieri le loro patrie sedi. Li nostri forensi hanno scritto e chiamato “malum vicinum, malum matutinum”. In Mola però non da soli vicini, ma da cittadini e forestieri sono assassinate le campagne.
Questa detestabile peste delle civili società, che attenta sopra la proprietà de’ beni e che vorrebbe ridurre il mondo alla condizione de’ selvaggi, come nemici dello stato si dovrebbero più che li bruchi perseguitare, ed esterminare più che qualunque crudele nimico: noi non siamo né selvaggi, né barbari: sotto l’ombra del Sovrano noi siamo nell’interno protetti dalle leggi ed al di fuori sicuri da invasioni esterne: non sono questi li secoli passati, in cui or li popoli del settentrione, or li Saraceni, ed ultimamente li Turchi entravano nel Regno, sbarcavano ne’ nostri lidi e ne depredavano le sostanze e le persone: ora li nostri nemici sono nel nostro seno, li nostri stessi concittadini, quei de’ paesi convicini nemici della fatica, ed avidi dell’altrui rapiscono il frutto dalle larghe spese, de’ stenti e de’ sudori de’ proprietari; e più avanti ancora ha di male questa ribalderia de’ ladri che girando di notte armati se mai trovano li padroni a guardia de’ loro poderi trascorrono sino ad ammazzarli, di che non sono rari gli esempi, onde per paura di essere uccisi o di essere perseguitati dalla giustizia, se mai difendendosi feriscono li ladri, ne è avvenuto che quasi tutti vivono lontani dalla campagna piuttosto di esporsi a tanti pericoli, ed alcuni per non vedersi straziati ne’ propri poderi in tanta rabbia, in tanto furore talora vengono che colle proprie mani hanno strappato gli innesti, e fatte svellere sin dalle radici le piante.
Questo grave danno che si cagiona al territorio di Mola cogli animali pecorini, caprini e bovini: questo gran numero di ladri, questa loro sfrontatezza e temerità nasce dall’impunità la quale è madre di ogni sceleratezza, giacchè pochi gratuitamente sono buoni; se li ladri fossero puniti ciascuno penserebbe a guadagnarsi il vitto colla maniera da Dio ordinata, ch’è la fatica.
Non si puniscono li ladri per varie cause: a processarli criminalmente mancano il più delle volte li testimoni: la spesa della processura è esorbitante, massimamente per li piccioli possessori, perché doppo che ne ha presa l’informazione la corte locale deve venire sulla faccia del luogo un subalterno dell’udienza almeno per confirmarla, se si vuole condannato il ladro.
Il ricorso alla Corte della Bagliva per gli danni dati riesce quasi sempre inutile, perché la Bagliva è corpo dell’Università e la rendita che si ricava dalle pene de’ danni dati si appalta per pagarsi con questa porzione de’ pesi pubblici: ma gli appaltatori per cavarne l’estaglio sogliono segretamente, com’è general sospetto, concordarsi colli massari delle pecore, delle capre, e co’ padroni de’ bovi, e dare ordine a custodi di non molestarli col pretesto che non si ha la certezza del padrone a cui sono stati rubati essi appaltatori si appropriano li frutti, e perciò non si ripara a furti e danni e alla rovina del territorio.
Per rimediare come si può a tanto male si è convocato pubblico parlamento e conchiuso che si metta la Bagliva in salvo, e se ne sta procurando l’assenso del Supremo Tribunale della Reggia Camera: si spera così dar freno a’ ladri ed impedire ch’ entrino animali a devastare il territorio: ma per togliere un’invecchiato malcostume ci vorrebbero a principio almeno rimedi forti ed ordine a tutti i magistrati d’invigilare sulla custodia della campagna, senza la quale sarà impossibile di poter prosperare l’agricoltura.
Era usanza non molti anni addietro, che le ragazze e li ragazzi li quali andavano in campagna a ricogliere le olive, le suscelle, o per altre facende, non partivano la mattina, né tornavano la sera senza essere accompagnate col massaro. Ora questa usanza è cessata, ed altra nuova in suo luogo n’è sopravenuta, che li ragazzi e le ragazze vanno, e tornano solo e sola, e con quella compagnia che più lor piace senza guida, perché due mali ne sono sopragiunti: l’uno si è che nel ritornare la sera rubano olive, suscelle, ed altra frutta secondo porta la staggione: l’altro è il libertinaggio, li di cui pessimi effetti per rapporto all’agricoltura, e il riparo da darsi sono stati anche riconosciuti nella Toscana e notati dall’autore del libro intitolato “ Pensieri sopra l’agricoltura” stampato in Firenze, uomo che mostra aver pratica della campagna e de’ costumi de’ contadini.
E’ anche osservazione fatta in questa provincia che in quelli paesi, nelli quali li lavoratori sogliono ritirarsi dalla campagna il giorno circa le ore venti, la mercede ossia la giornata se la mangiano e bevono dentro le taverne co’ loro compagni e lasciano digiune le mogli e le figlie: altra potente causa di dissolutezza e di libertinaggio.
Vi dovrebbe dunque essere una legge e farsi eseguire, colla quale si ordinasse che li ragazzi e le ragazze andassero in campagna e ritornassero accompagnati sempre col massaro, e che li lavoratori non si ritirassero nelle terre, e città doppo sonata l’Ave Maria: picciole cose sembrano queste, ma le picciole cose non disprezzate sogliono fare buoni e grandi effetti.
Notizie eclatanti sulla vita di Mola si apprendono leggendo la sesta parte del documento del 1783: quanto guadagnava un potatore di ulivi o il contadino che zappava le vigne o il mietitore di grano? 15 grana al giorno per il potatore, venti grana per lo zappatore e fino a trenta per il mietitore... alla paga si aggiungeva per il ristoro due caraffe di vino. La grana, moneta borbonica, tradotta in euro vale oggi 50 centesimi ma in quel periodo con sei grana si comprava un chilo di pane, con otto grana un chilo di maccheroni, tre grana costava un litro di vino e un chilo di carne sedici grana. I relatori del documento successivamente esprimono molte riserve sugli amministratori pubblici della città che, obbligati a presentare un resoconto “chiaro, lucido, intiero” a fine mandato, quasi sempre però anche allora nascondevano i conti generando vendette e tumulti nel popolo. E infine un osanna a Carlo di Borbone, sovrano illuminato, a cui è necessario “drizzare monumenti eterni”.
IL COSTO DEL LAVORO
Il prezzo delle giornate de’ lavoratori non è fisso: li soli potatori così degli ulivi che delle vigne per uso antico hanno grana quindici il giorno, e più due carafe di vino: il prezzo delle giornate de’ zappatori ed altri varia secondo si affollano le fatiche, o per causa di pioggie precedute, o per esserci più faccende da farsi nello stesso tempo. E’ però fisso, che il lavoratore il quale deve adoperare la zappa chiamata zappa lata abbia due carafe di vino, oltre la paga, che per zappare le vigne suol variare dalle grane dodici sino alle grani venti. Li zappatori che usano la zappa chiameta zappa stretta, o zappone hanno una carafa mezza di vino il giorno, ed in danaro nel mese di luglio e agosto mesi li più sfaccendati un carlino. Li mietitori hanno carafe due e mezza di vino e la giornata varia secondo il bisogno dalle grana diecesette sino alle grana trenta e più.
Nuoce non poco all’agricoltura la maniera come sono amministrate le rendite universali per gli cattivi effetti che ne derivano.
Nella Prammatica quinta “De administratione universitate” e specialmente nel paragrafo 9: sta disposto che il Sindaco fra dieci giorni doppo finito il tempo di sua amministrazione debba presentare il suo conto chiaro, lucido, intiero, e fedele a razionali, giunto con tutte le scritture necessarie per la liquidazione di esso conto sotto pena di oncie cinquanta: e nel paragrafo 12 della stessa prammatica sta ordinato che li successori nell’amministrazione della Università debbano con ogni diligenza attendere a pigliare il conto da tutti quelli suoi predecessori che avranno maneggiato ed amministrato detti danari, e quello far liquidare al più fra un mese e liquidato incontinente esigere tutto quello al che fossero dichiarati debitori alla Università per loro conti, a tal che non ne vengono le Università a patire interesse e danno. E non esigendo fra detto tempo siano essi tenuti a pagare detti debiti ma cogli interessi, salvo se restasse per ragionevole, giusto e manifesto impedimento.
Questa Prammatica però si trova reggistrata nella raccolta delle medesime, ma non si vede praticata. Gli amministratori finito il tempo di sua amministrazione, non presentano li conti, e li successori nell’amministrazione non curano farli presentare, e liquidare tra li tempi stabiliti e quindi nasce sospetto tra la gente che gli amministratori si siano approfittati del denaro pubblico; quindi in alcuni si eccita un certo zelo per lo ben pubblico: in altri si sveglia l’invidia, l’odio, e lo spirito di vendetta. Tutte le più nere passioni l’agitano e fanno un tumulto, il quale si aggira per tutti gli ordini della città, li disunisce, li urta e gli strascina a lacerarsi vicendevolmente nelle piazze, e dall’inferiori a supremi tribunali: l’umor turbolento e la stizza si impossessa de’ lor cuori; più non si riconoscono li buoni ed utili da cattivi e dannosi cittadini: si formano diverse fazzioni e ciascuna quanto si può s’impegna che l’elezione de’ nuovi amministratori riesca in persone aderenti: fatta la elezione da’ malcontenti se ne portano le nullità: si accrescono gli odi, il furor cittadino li mena da un litiggio all’altro, e si consuma il tempo e si manda fuori dal proprio paese molta quantità di denaro: così impiegati li cittadini a straziarsi fra di loro ed a profondere il proprio avere in avvocati, procuratori, e ministri delegati sono distratti dalla coltura della campagna, e restano privi della facoltà di poterla coltivare.
Che perciò volendosi far prosperare l’agricoltura è necessaria che gli amministratori delle Università finito l’anno diano subito i conti della loro amministrazione per togliere di loro ogni sospetto, e perché li cittadini si avvezzino a vivere de frutti de loro poderi e della loro industria e se li tolga ogni motivo di coltivare inimicizie e l’osservanza della Prammatica sarebbe necessaria in tutte le Università del Regno, giacchè si sa che quantunque alcune Università non si risentino di questo male ciò avviene non perché ne siano esenti, ma perché una parte ha terminata di opprimere l’altra e li cittadini rassomigliano corpi morti sepelliti gli uni presso gli altri.
Non basta che le rendite pubbliche siano bene amministrate, e che si tolga ogni sospetto del contrario, e si scanzino perciò le liti, è necessario che le liti tra particolari non siano interminabili: chi è possessore difficilmente può passarsela senza liti, ma queste liti dovrebbero terminare: chi ha però la disgrazia di litigare sperimenta ch’entrato una volta nel labirinto de’ tribunali non trova più la via di uscire.
Si è conosciuta da tutte le nazioni la necessità della pronta spedizione delle cause di commercio, si dovrebbe pensare come sollecitamente decidersi le cause tra possessori per rimandare sollecitamente questi dai tribunali a coltivare li loro campi.
Noi abbiamo lo stesso numero di giudici che vi erano il secolo passato, ma del tempo in cui per nostra salvezza e per la nostra maggiore felicità fu mandato da Dio l’Augusto RE CARLO a redimerci e fu rimesso il trono del Regno, il numero delle anime è cresciuto più del doppio; e come prima la maggior parte delle cause si decidevano colla forza privata, rimenata in queste contrade dallo stesso Sovrano ora Glorioso Monarca delle Spagne la giustizia, non più colla forza privata, ma colla veneranda autorità delle leggi le cause tutte si decidono. A quel Gran Monarca adunque per questa e per tante altre infinite beneficenze lasciateci, giusto è che in ogni angolo del Regno si drizzino monumenti eterni colla iscrizzione “LIBERATORE E NUOVO FONDATORE DEL REGNO”.
Ma essendo cresciuto il popolo, e cresciuto il numero delle cause sarebbe necessario che a proporzione fosse accresciuto il numero dei giudici per la sollecita spedizione degli affari.
Una forte tensione traspare dalla lettura di questa parte, una specie di dichiarazione dolente sullo stato dell’economia titolese in questo periodo. La città di Mola era oberata di tanti debiti e una forte e capillare tassazione colpiva il settore trainante dell’economia cioè l’agricoltura. 9800 ducati era l’esborso annuale, ricavato dal grano, dal vino e soprattutto dall’olio a cui si aggiungeva il catasto. La relazione si sofferma anche sulla descrizione della figura di “ispettori che con lo loro assillante presenza sul cittadino spiano ogni loro qualunque movimento”. Nel testo appaiono due personaggi storici: Mercurio di Alessandro e il re Alfonso I d’Aragona. Il primo, nobile di Cardilo, si può considerare un broker finanziario che aveva prestato una grossa somma all’università di Mola. Il secondo invece è il primo re aragonese di Napoli che sostituì gli eredi della casata d’Angiò nel 1442 nel governo del regno.
LE TASSE
La maniera come sono situati in Mola li pesi pubblici nuoce ancora all’agricoltura. Paga Mola ordinariamente per fiscali, per spese comunitarie, per debiti istromentari e per altro dovuto alla Reggia Corte docati novemila ottocento annui; questi si ricavano ed esigono nel seguente modo, cioè:
- per ogni rotolo di grano che si riduce in farina si pagano, oltre la molitura cavallucci nove e mezzo.
- per ogni carafa di vino, che si vende sia forestiero sia paesano, cavallucci sei.
- per ogni salma d’olio mosto nell’uscire da trappeti grana cinquanta.
- oltre il pagamento di dette grana cinquanta a salma si devono ricavare parimenti da sopra l’olio mosto in ciascuno anno docati quattrocento precipui per pagarsi le annualità di porzione di un credito istromentario, del quale sono stati posti in possesso gli eredi di Mercurio di Alessandro.
- si pagano cavallucci sei sopra ogni rotolo di pesce che si compra.
- parimenti cavallucci sei sopra ogni rotolo di carne.
Vi sono ancora altre rendite le quali si ricavano da pesi, bilancie e misure che si adoprano nel misurare e pesare le robbe che si vendono in piazza.
è ancora la rendita delle pene de’ danni dati.
Si paga il catasto sopra tutti li beni stabili, sopra gli animali, e sopra il negozio alla ragione di tornesi nove ad oncia: più sopra li vigneti, ortalizi, seminatoriali, e giardini si paga oltre delli tornesi nove ad oncia, un grano similmente ad oncia per sodisfare altri docati due cento annui complimento della intiera annualità dovuta a summentovati eredi di Mercurio di Alessandro.
Le dette gabelle e dazi si appaltano e per essere amministrate vi si impiegano molte persone tutte provisionate: la sola gabella della farina e li dazi dell’olio e del vino portano di spesa per le provisioni sopra li docati sei cento annui. L’esazione del catasto si appalta talora al quattro e talora al tre e mezzo per cento. In tutte le altre gabelle vi si impiegano per l’esazione e governo delle medesime varie persone.
Da ciò avviene, che li pesi sono più esorbitanti, e che un maggior numero di cittadini è tolto all’agricoltura e si avvezza a vivere da pubblicano a spese e alle spalle altrui: e da tanta moltiplicità di pesi, li quali richiedono, come si è notato, moltiplici esattori, li poveri cittadini, oltre de’ pesi ordinari vengono gravati di grossissime spese per farsene l’esazione, o che faccino la rivolta, o che mangino, o che bevino hanno sempre a fianco un’ispettore, il quale spia ogni loro qualunque movimento, e li strappa buona parte delle proprie sostanze.
Non è nostro il discernere, se fu provido consiglio del Re Alfonso Primo nel parlamento del 1442: a suppliche del baronaggio aver volute tassate le Università a ragione de focolari, cioè a ragione della rispettiva popolazione: nello stato però in cui sono state e sono le Università, che alcune quantunque popolate hanno ristretto territorio, ed altre lo hanno largo se bene sia picciola popolazione, sembra contradittorio, che la tassa si faccia a proporzione de’ focolari, e la esazione a proporzione delle rendite de’ territori, cioè sull’estimo de’ beni ch’è il catasto, donde avviene che una Università che ha vasto territorio, e poca popolazione ha pochi pesi: un’altra che racchiude gran popolo ed ha stretto territorio porta pesi enormi ed insopportabili: da questa contradizione n’è avvenuto ancora specialmente ne luoghi di marina com’è Mola, che pubblicato il catasto si son dovute ritenere le gabelle e dazi, ora e si è accresciuto un nuovo esattore, qual è quello del catasto.
In Mola si esige il dazio dall’olio, si esige il dazio dal vino, si esige il catasto: tutte queste esazzioni cascano sopra li beni stabili, perché dunque dividerle in tanti corpi, ed esattori? Sarebbe nelle circostanze in cui questa Università si trova espediente accavallare il dazio dell’olio e del vino sopra il catasto da pagarsi per li soli beni stabili: il che non varia, né sta soggetto all’arbitrio degli amministratori e de’ deputati: tassare gli animali, ed il negozio è lo stesso che render un cittadino arbitro dell’altro, e dar l’armi in mano all’invidia, alla gelosia, all’odio, ed alla vendetta, che negli abbitanti de’ paesi di provincia si eccitano, e favorire le aderenze che hanno tra loro, e la tassa del negozio val tanto quanto punire l’industria volontaria di un cittadino, il quale colla sua volontà dà moto all’agricoltura ed all’arti.
E per fare il pieno, e pagare tutti li pesi, lasciare la gabella della farina, la quale in parte si paga da forestieri che passano per Mola, lasciare le altre picciole gabelle e dazi sopranotati, e per favorire la coltivazione delle vigne in Mola esigere il dazio solamente sopra il vino forestiero.
Lei lettura della parte ottava mi porta a fare due considerazioni: la prima è la certezza della data di produzione a Mola dell 'olio “cibario”, 1782, grazie alla macina di olive fresche e al lavaggio delle vasche di accumulo. Infatti i frantoi ipogei presenti sul territorio malese fino a quella data, estraevano solo olio lampante sporco esportato nei porti dell’Adriatico, Ferrara, Trieste, Venezia e Fiume. La seconda considerazione invece riguarda la tecnica di estrazione dell’olio: gli autori della relazione fanno riferimento alla scoperta, ne! 1750, della macchina olearia di Stuòia negli scavi dell’area pompeiana: “questa macchina di olio consiste in una vasca circolare di pietra e ben incavata di quattro palmi di diametro, nel mezzo sorge un cilindro a cui si imperniano due ruote..Commentando la scoperta gli autori della relazione ritengono che l’uso dell’antica macchina romana possa migliorare la qualità dell’olio. Ma sappiamo che questo risultato fu raggiunto più tardi dal marsigliese Pietro Ravanas che, in provincia di Bari e anche a Mola, installò i primi frantoi innovativi nel 1826, grazie ai finanziamenti dei Borboni.
La parte ottava si conclude con riferimenti illustri a Columella e Palladio, autori classici di trattati di agricoltura, e questo aggiunge valore di raffinata cultura ai redattori molesi, evidenziando così una inaspettata ricchezza di citazioni assenti in altre analoghe relazioni.
OLIO E TRAPPETI
Mola come buona parte delle città maritime della provincia fa il suo comercio colle piazze dell’Adriatico, e questo consiste principalmente nella estrazione dell’olio: col nostro concorrono gli olj di Istria, di Albania, di tutto il Levante Veneto e Turco, e sin’anche gli olj di Barberia: questi ci superano alcuni nella qualità e quasi tutti nel prezzo, sicchè in concorso vengono preferiti alli nostri: giova dunque temere che ciò non rechi danno alla coltivazione delle olive, pianta per il suo frutto molto preziosa, e perciò grata, a giudizio dell’antichità, alla Dea della Sapienza, e questo timore non è vano, ora maggiormente, che le altre nazioni hanno aperto gli occhi, ed hanno incominciato a moltiplicarla, o meglio coltivarla: al qual male che ci sovrasta altro riparo non si potrebbe opporre, che migliorare la qualità dei nostri olj, il che oggi sarebbe facile col mezzo della machina trovata in Stabbia, e col minorare in parte li dritti di estrazione, li quali spesso giungono al terzo, ed alcune volte alla metà del primo costo.
Nell’anno prossimo passato si volle in Mola provare se si poteva far l’olio cibario, che non avesse cattivo odore: per riuscire si usò la diligenza di macinare le olive di fresco ricolte, pulire e lavare la macina, la fonte, li fiscoli, ossiano le ceste, con far scolare l’olio non già nelle solite pozze cavate nel sasso vivo o nel tufo, che nella provincia chiamano angioli, li quali sono sempre sporchi, e forte puzzolenti per la morchia che dentro s’imputridisce, e corrompe a causa della difficoltà e poca cura si ha di cavarvela ogni giorno e nettare e lavare gli angioli con acqua chiara, ma di farlo andare in vasi di legno, e purgarli e sciacquarli ogni volta e di prendere il solo olio delle mammole, ossia della prima pressura quantunque sotto la macina fosse schiacciato l’osso delle olive: con queste sole diligenze si ebbe l’olio di tal qualità che potesse comparire nelle tavole delicate; non ostante che il trappeto fosse sempre fetente per gli lumi, pel fuoco, pel fumo, essendo per lo più li trappeti grotte sotterranee nelle quali non giuoca l’aria, è d’orribile fetore per tante altre sporcherie, talmentecchè le vesti di chi vi entra, e si trattiene per qualunque picciolo spazio di tempo tramandino tal puzzo, che non è sofferto in qualunque civile adunanza. Cosicchè chiaro appare, che se noi usassimo le diligenze praticate dagli antichi tramandateci cogl’insegnamenti di Columella e di Palladio, e si mettesse in opera la macchina pompeiana li nostri oli in qualità non cederebbero a quelli che ora ci vengono da paesi stranieri con tanto dispendio di danaro, ch’esce dal Regno, anzi li nostri sarebbero ricercati da tutte le colte nazioni.
Chi pone mente a nostri mali nati nel tempo, che siamo stati Provincia, e governati da sovrani che avevano la loro sede altrove, non può non restare commosso da compassione e tristezza, e spinto da un forte e giusto disdegno non può non dimandare rimedio a male tanto grave e rovinoso: tutto perché allora cospirava e veniva ordinato a rendere povero ed avvilito il Regno: tra le altre cose furono caricate di diritti esorbitanti nell’estrazzione tutte le produzioni, o naturali, o di manifatture paesane e nell’immissione furono più gravati quelli generi, li quali si immettevano per lavorarsi nel Regno, che gli altri che venivano lavorati da fuori; può servire tra le altre di esempio quel che si paga per li ferri lavorati e non lavorati, e quelli che vanno a fuoco, e non vanno a fuoco.
Qual maraviglia dunque se mancò la popolazione nel Regno, e se le nostre campagne, domicilio un tempo di Bacco, di Cerere, e di Pallade diventarono boscaglie, e covili di bestie, e di animali feroci, e se le pubbliche vie fatte per comodo del commercio, e per trasportare comodamente li viveri, e rendere facile la communicazione tra le diverse città e provincie furono tutte piene di masnadieri e che questi non cessarono che doppo devastato e spopolato il Regno, distrutti e consumati più dalle pesti e dalle frequenti carestie, che dalle forche e dalle mannaie.
Non si può avere gran popolazione senza sossistenza, né si può sossistere senza li frutti che ci dà la Madre Terra, né frutti si possono avere in abbondanza senza coltivazione. Noi non possiamo avere cognizione, né sapere sino a qual punto si può servirsi della terra, e come si possono accrescere le sue produzioni: è necessario per acquistare queste cognizioni, che si ami generalmente l’agricoltura per conoscersi il termine sin dove può ella andare e perfezzionarsi, ed allora si potrebbe far calcoli più ragionati, e meglio intendere la prodiggiosa quantità di popolo, che ci narrano gli scrittori essere stati racchiusi ne’ tempi della rimota antichità in questo Regno.
Questa parte conclusiva della relazione inizia con una critica a quelle famiglie molesi che mandano a Napoli i propri figli per farli studiare da medici, dottori in legge e musici, togliendo così braccia e menti al lavoro nei campi. Lyagricoltura è l’asse portante dell’economia molese: olio, carrube, grano, mandorle e vino. Quindi le autorità politiche locali e nazionali devono impegnarsi per migliorare le condizioni di lavoro dei proprietari terrieri e degli operai.
Oggi si può capire come era strutturata a Mola Veconomia delle campagne da una lettura della mappa “Atlante geografico del Regno di Napoli”, elaborata dal cartografo padovano Rizzi Zannoni nel 1781, quindi nello stesso periodo in cui è stata scritta questa relazione.
Dalla visione generale dell’abitato si può notare come Mola avesse una forma pentagonale con 5 torri e il castello distanziato, oltre Vattuale piazza i primi insediamenti urbani tra la Maddalena e S. Domenico. Ma quello che colpisce è la descrizione dettagliata delle numerose masserie sparse nel territorio che costituivano Velemento fondamentale della produzione agricola : Albero- tanza, Gallinaro, Torchiarolo, Trotti, S. Paterno, Spinazzo, Volpe, Lattarulo, Caputo, Demora, Monsignore, Bitetto, Pascali, Noya. La struttura produttiva era funzionale alla esportazione di buona parte del prodotto e questo era possibile grazie all’insenatura profonda di Portecchia che poteva ospitare ben 12 imbarcazioni da carico tra pandore e trabaccoli che garantivano il trasporto per Napoli, Ragusa, Fiume, Trieste e Venezia.
Infine un ringraziamento alla direzione di Città Nostra per aver reso possibile la pubblicazione in nove puntate di questo importante documento.
CONCLUSIONE
Questo tempo non è lontano: il nostro amabilissimo Sovrano e Padre ha cominciato a girare gli sguardi sopra l’agricoltura, e basta ch’egli voglia sarà tutto fatto, perché Iddio communica alli sovrani per lo governo, e felicità de’ loro sudditi la sua onnipotenza.
Si mandano dalle provincie e dai padri li figli a fare gli studi in Napoli, e di questi ci tornano quali dottori di legge, e quali di medicina e di altri ci tornano politi nelle maniere, intendenti di canto, di suono, di ballo, e di sapere ordinare un festino, una tavola: non si biasimano questi, ma l’interesse del Regno vuole che la gioventù massimamente delle famiglie benestanti non viva come fa la maggior parte, perduta nell’ozio, nel giuoco, ed in vaghi amoreggiamenti, ma sia educata in modo che non si prenda a vergogna se sopraintenda alla coltivazione dei suoi poderi: una piccola aura soave e favorevole che spiri dalla bocca del Sovrano elettrizzerebbe gli spiriti, e questi correrebbero, ove egli li menasse. Tolti dunque gli impedimenti per farla prosperare è necessario porre in onore, come è stata sempre presso le nazioni culte, l’agricoltura e mostrare segni di compiacenza e far carezze, e talvolta dar qualche premio a quei possessori, che meglio avessero saputo far coltivar le loro possessioni, il che questi faranno, se invitati dall’onore, e dal premio spesso visiteranno e dimoreranno nella campagna.
E’ memorabile il detto di quel cartaginese, il quale dimandato qual fosse il miglior letame, rispose: “Vestigia domini”: ma il visitare li poderi, e la dimora in essi non dev’essere né vano, né ombratile, ma per sopraintendere, ed osservare li coltivi, e per conoscere per se stesso colla pratica quel che si deve, e quel che non si deve fare, ed in quali tempi: la sentenza di Catone il Vecchio deve tenersi sempre scolpita nell’animo “ Male agitur cum domino, quem villicus docet”.
Per apparare l’arte, o scienza dell’agricoltura vi sono molti scrittori antichi e moderni li quali si devono dalla gioventù leggere per trarne quei precetti che confanno al nostro suolo, ma come saviamente avvertì Columella nel cap. 2 del libro I :“ scriptorum monumenta magis instruunt, quam faciunt artificem, usus et experientia dominantur in artibus”, perché per applicare li precetti così nell’agricoltura, come in ogni altra arte è necessaria la conoscenza de’ dettagli, e questi non si apparono che coll’uso: se oltre la lezzione de’ scrittori delle cose rustiche, e la pratica vi si unisse ne’ possessori una qualche cognizione di meccaniche e di fisica, molte nuove machine agrarie s’inventerebbero nel nostro Regno, molte nuove scoverte si farebbero sulla produzione delle terre, si moltiplicherebbe il frutto, e le nostre derrate si perfezionerebbero nella qualità: oggi essendo l’agricoltura tutta in mano de’ contadini non si fa che quello che si faceva, e questi condannati a versare li loro sudori sul terreno non hanno né tempo, né forza, né capacità di fare riflessioni, e non sanno far altro, come spiega un autore, che porre il chiodo nei buchi vecchi.
Quando l’agricoltura sarà posta in onore, e la filosofia si sarà ritirata in campagna, allora si conoscerà come riusciranno depurati, spiritosi e di lunga durata li nostri vini: come li nostri olj saranno li più perfetti e squisiti, e non saremo noi contro l’ordinario corso della natura nella dipendenza per tali generi dalle straniere nazioni, dalle quali oggi si comprano per contanti a caro prezzo; ma li stranieri dipenderanno da noi. Allora invece della miseria e dello squallore girerà per questo Regno l’abbondanza e l’allegria e le genti tutte tra cantici festosi e di vere lodi a gara inalzeranno statue, ed obbelischi al nostro Sovrano e vi iscriveranno “A FERDINANDO IV NUTRICATORE DE’ SUOI POPOLI”.
Queste sono le cose, che per ubbidienza alli venerati ordini del Supremo Consiglio delle Finanze abbiam saputo debolmente rappresentare. Ci resta ora solo di porgere, come facciamo, ferventi voti e suppliche a Dio Ottimo Massimo, che ci conservi la Sacra Persona del Re, della Regina, e tutta la Real Famiglia, che regnino sopra di noi li figli de’ loro figli, e chi verranno da quelli, che loro concedi sempre lo spirito di sapienza, e di fortezza e che benedica nel nostro amatissimo Sovrano e Padre tutti li popoli a lui soggetti, e cari.
Documento trascritto da Vito Didonna.
L’originale è presente nella Bibilioteca “De Gemmis” di Bari e sulla piattaforma online della Biblioteca Digitale Italiana-Internetculturale.